Parla Diana Toccafondi, Sovrintendente Archivistico per la Toscana

"Grazie mille dell’invito perché per me è stato un’occasione di leggere un libro che, dico subito iniziando con le impressioni personali, mi ha appassionato e commosso per tanti aspetti. Prima di tutto perché l’ho vissuto come una sorta di prova, riuscita, di un qualcosa che invece è difficile fare, cioè comunicare la storia.
Noi che lavoriamo con i materiali della storia, gli archivi, vediamo la difficoltà di comunicare queste cose. Noi diciamo che la storia è fatta con i documenti, che sono i mattoni della storia, affermazioni che tutti gli insegnanti fanno ma che poi occorre rendere concrete. Quando si parla di metodologia della storia, e si dice che occorre rendere concreto il passato e far percepire che è accaduto veramente, si dice qualcosa di veramente difficile specie oggi che c’è uno iato profondo nel contatto fra presente e passato.
Questo libro ricuce questo contatto nella maniera migliore, devo dire migliore e spiegherò meglio cosa intendo, perché riassetta i rapporti oggi difficilissimi fra storia e memoria, tra la storia che si fa sui libri, con i documenti, fatta dagli storici in maniera professionale, e la memoria che ci viene tramandata, un tradere personale che ci interessa di più.
Questo libro di Chiara Recchia riesce a farlo, tanto che ho pensato “tutto sommato fra gli storici del documento spesso si dibatte sulle separazioni fra quello che è storia e quello che appartiene alla memoria, che può essere riattualizzabile ma che non necessariamente è scientifico. Questo libro scardina questi dibattiti e fa vedere che i due terreni sono estremamente collegati.
Poi mi ha convinto che sia una sfida riuscita il fatto che questo libro utilizza i documenti non come una giustapposizione, una conferma, una sorta di suggello a quel che si dice, ma ne fa trama e ordito della narrazione. I documenti sono estremamente connessi, non sono giustapposti come francobolli, tanto che è difficile a volte capire dove finisce la narrazione e inizia il documento e viceversa.
Veramente devo dire che è stata una grande scoperta e tutto questo l’ho vissuto come una creazione musicale, come un contrappunto continuo tra storia personale e Storia che si coglie fin nelle date: quando nasce il figlio scoppia la terza guerra d’indipendenza, quando si sposano siamo agli albori dell’Unità, arriva la nuova legge di stato civile e subito la si concretizza nella storia di registrazione di figli non legittimi e che non saranno legittimati. È un continuo contrappunto che mi ha dato la sensazione della musicalità, anche perché sia la documentazione che viene utilizzata sia la narrazione sono fusi in un registro letterario particolarmente raffinato. Ha una bella scrittura Chiara Recchia, complimenti, e non è una scrittura semplice, nel senso che la si legge con passione ma ci si ritorna anche volentieri sopra per ascoltarla.
E poi, questo contrappunto fra coralità e narrazione è punteggiato da un terzo livello, reso anche graficamente da box in corsivo con sottofondo grigio, che è il livello del commento della voce narrante. Si sente l’accompagnarsi dell’autore, che non si nasconde perché queste parti sono in prima persona, per cui credo che lo strutturalismo letterario avrebbe da dire su questo contrappunto fra chi scrive e chi legge, perché invita il lettore a farsi a sua volta voce, non solo ascoltatore ma commentatore. Quindi è un libro attivo, un libro che può insegnare la storia.
Io ricordo quando a scuola, negli anni ’70, studiavo l’Italia delle corti, quel periodo fra ‘400 e ‘500 che sui libri di scuola non si riusciva mai a memorizzare bene. Mi dicevano “perché non leggi i libri di Maria Bellonci? Leggi “Tu vipera gentile” o “I segreti dei Gonzaga”, e in effetti con quei libri si imprimeva nella memoria qualcosa che diventava parte di te.
Non voglio far paragoni con Maria Bellonci, ma in questo caso c’è qualcosa di più, nel senso che c’è un “ inter – esse”, il fatto che Chiara Recchia è in mezzo a questa storia perché è la storia della sua famiglia, una storia che viene dalle sue radici e che la coinvolge personalmente, un coinvolgimento che si sente forte e nello stesso tempo però è trattato con l’attenzione e anche la distanza che viene dal voler raccontare qualcosa.
E’ la storia di una donna e la storia di un grande amore, e in questo devo dire che non è solo una storia di donne ma anche una storia di uomini. Una grande storia d’amore veramente commovente, che è sì chiusa in questa gabbia di convenzioni sociali, di regole, di leggi, che nel passaggio dallo stato preunitario all’unità d’Italia non cambiano molto, perché se è vero che ci sono le nuove leggi di unificazione amministrativa del 1865, ma si unifica un’ ingiustizia, l’Italia si unifica sotto una legislazione che continua a sottolineare le distanze sociali e non certo a scioglierle.
Storia di una donna, di un amore e anche di una madre, con tutti questi figli che nascono. Chiara Recchia mi chiedeva di parlare del problema degli esposti che non possono essere legittimati né riconosciuti, perchè sono i figli di quest’uomo che non può sposare questa donna perché appartiene a un altro ceto sociale, e vive una doppia famiglia, due famiglie contemporaneamente.
Mi viene in mente di quando De Sica raccontava del De Sica padre che doveva barcamenarsi fra le due famiglie, doveva fare salti mortali fra due Pasque e due Natali…
I figli nascono ma non possono essere legittimati perché di fatto questa donna è una mantenuta, come senza veli è scritto nel libro, ma con una dignità incredibile. Questi figli non possono essere riconosciuti e quindi vengono esposti, ed esporre il figlio significava darlo alla carità pubblica.
In realtà questa carità pubblica funziona perché è un sistema di solidarietà sociale che in Italia funzionava dal Medioevo, in vari modi. Qui si parla di una storia in Terra di Lavoro, ma io ho presenti le storie qui a Prato e posso dire che il nostro ospedale della Misericordia e Dolce aveva fin dal trecento un sistema ormai rodato di accoglimento di bambini abbandonati.
Un sistema rodato di accoglimento che funzionava in un modo un po’ diverso perché nel trecento non c’era un luogo di accoglienza e non c’era la ruota, i bambini venivano abbandonati come si poteva, davanti alle chiese, spesso sul sagrato, ma venivano accolti e a poco a poco la cosa si istituzionalizza e a Prato si introduce, prima ancora della ruota, la “pilla” davanti all’ingresso dell’ospedale, una specie di acquasantiera alta che teneva il bambino lontano dal terreno, dove poteva essere preda di animali.
Successivamente nel ‘400 venne introdotta la “ ferrata” che era una finestrella con un’inferriata abbastanza stretta fatta in modo che non consentisse di poter passare dall’altra parte bambini troppo grand,i per evitare l’abbandono di bambini già cresciuti che i genitori causa la povertà non riuscivano a mantenere.
Successivamente sarà introdotta la ruota e poi il procedimento è lo stesso: c’è la registrazione del ritrovamento del bambino, si raccontava come veniva ritrovato, c’è l’affidamento alla balia attraverso la stessa registrazione del ritrovamento e nell’archivio di Prato c’è una serie meravigliosa di registri di baliatici.
Il bambino veniva battezzato se c’era la certezza che il bambino non era stato battezzato. Di solito insieme al bambino c’era anche un biglietto dentro il quale si scriveva se il bambino era stato battezzato e se aveva già un nome, e non era detto che quel nome venisse mantenuto, poi si aggiungeva un sacchettino di sale.
Se c’era il sacchettino di sale voleva dire “deve ancora avere il sale” e quindi significava che il bambino non era stato battezzato anche se non c’era scritto niente perchè i genitori erano analfabeti.
Le registrazioni sono molto commoventi e ricordo che quando ero nell’archivio di Prato leggevo i bigliettini e mi commuovevo perché si vedeva la miseria ma nello stesso tempo anche il legame che si rompeva nel momento dell’abbandono. Spesso nei biglietti c’era scritto “mi raccomando, tenetelo bene, abbiatene cura, lo raccomando a Dio, verrò a riprenderlo se posso…”
Oppure, e l’ospedale in questo era molto attento, si descriveva nell’atto in cui si registrava il ritrovamento addirittura anche tutto quello che il bambino aveva indosso, perché l’ospedale conservava insieme con la memoria del bambino tutto ciò che il bambino aveva indosso: medagliette, spesso medagliette spezzate come a dire plasticamente lo spezzarsi del cuore nel momento dell’abbandono, piccoli cuoricini, medagliette di benedizione .
Tutto questo veniva conservato e infatti esistono ancora oggi i cosiddetti segnali dei gettatelli, così si chiamavano a Prato gli esposti, conservati e servivano proprio nel caso in cui i genitori fossero stati in grado di riprendersi il figlio per dimostrare che erano loro i genitori. Allora venivano con l’altra mezza medaglietta, quasi la certificazione si potrebbe dire che il figlio era proprio il loro.
Poi venivano allevati dalle balie e c’era un uso, che poi venne represso, che le donne che non potevano tenere il bambino lo abbandonavano e poi lo riprendevano come balie. Dicevano “mi è morto il bambino, ora ho il latte” si presentavano come balie e si facevano dare il loro bambino.
Questo uso fu represso, ma in fondo nella storia di Eleonora e dei suoi figli vediamo che i primi quattro figli vanno alla sorella, la balia è la sorella e di fatto rimangono dentro la famiglia.
Ma al di là del fenomeno degli esposti, di cui Chiara mi ha chiesto di parlare quando mi ha invitato, leggendo il libro ho visto che ci sarebbe da parlare di molto altro.
Vorrei accennare alle registrazioni dei momenti più importanti dell’esistenza, il nascere, lo sposarsi, il morire, il matrimonio, la certificazione dell’esistenza in vita, sono il cuore della nostra memoria conservata negli archivi.
Ed è stato sempre conservato questo aspetto, che fosse la Chiesa a farlo o che fosse poi dopo lo Stato a prendersene cura. In realtà in Italia è solo con Napoleone che lo Stato diventa colui che tiene lo stato civile, quindi le registrazioni delle nascite matrimoni e morti, ed è una battaglia con la Chiesa, ma è proprio lì che si manifesta l’esistenza di un senso della Nazione, ecco perché il discorso dell’unità d’Italia qui c’è tutto.
Il senso della nazione è la registrazione della popolazione non solo come contabilità delle anime, come era invece per la Chiesa, ma come il tessuto di un vivere insieme, di un vivere civile che arriva proprio lì. Pensiamo oggi cosa significa per i popoli dove ci sono guerre, le tragedie contemporanee che appartengono alla nostra storia.
Tanto per scendere sul personale, io ho una figlia che vive in medio oriente e ha un ragazzo che non sa quando è nato, un ragazzo iracheno che non sa quando è nato. Sul passaporto c’è scritto 1 gennaio 1981 e una volta gli ho detto “Jamal, mezzo Irak è nato il 1 gennaio 1981” perché la madre non si ricorda quando è nato, c’era la guerra Iran- Irak e non hanno mai potuto registrarlo. Perciò hanno dato a tutti questa data che lui chiama “il giorno del mio non compleanno”.
Così come l’esistenza nei campi profughi è dovuta proprio al fatto di avere una certificazione di vita, altrimenti non esisti.
Questo sembra un elemento cessato, in realtà è coevo alle nostre tragedie contemporane, purtroppo.
Quindi direi che questo libro va fatto leggere nelle scuole, sicuramente, ma non è soltanto un libro per le scuole, questo è un libro per imparare ad accettare che siamo figli della storia, ma che la storia non è una cosa da professori ma è il nostro sangue, così come i documenti non sono oggetti polverosi che stanno chiusi negli archivi ma sono la linfa, ciò che fa scorrere questo sangue dove poter continuamente tornare. Questa è la sfida di oggi.
Un‘altra figura che mi è venuta in mente è stata quella di Filomena Marturano, anche se è tutta un’altra figura quella di Eleonora, ma mi sono ricordata la frase "mi volevo arrubbà nu cognome” volevo avere un cognome. Ma questa donna è di una dignità tale che anche quando questo matrimonio avviene, in punto di morte, in realtà è lei l’artefice del suo destino.
Non importa più questo cognome, quello che importa è il grande amore che lega quest’uomo e questa donna, quasi archetipico da quanto è forte, va al di là di tutto, e il grande amore che lega lei ai suoi figli. Quella che credo sia poi la sostanza di ogni storia."

Prato, Monash Center, 9 marzo 2012